In "Gli anni con Laura Díaz", di Carlos Fuentes, ho trovato queste:
- Scrivere significa scendere dentro se stessi, come se uno fosse una miniera, per poi risalire. Risalire all'aria pura con le mani piene di se stessi.
- Uno scrittore non deve mai conoscere tutta la storia. Ne immagina una parte e chiede al lettore di proseguirla. Un libro non deve chiudersi mai. Deve proseguirlo il lettore.
- Dicono che il dolore distrugga il linguaggio. Può essere solo un grido, un gemito, una voce disarticolata. Parla del dolore chi non lo sente. Domina il linguaggio del dolore chi descrive il dolore degli altri. Il dolore vero non ha parole.
- Che sciocchezza pretendere che amiamo tutti i figli allo stesso modo, non è vero, non è vero, ci sono figli in cui intuisci quello che ti manca, figli che sono qualcun altro oltre a se stessi, figli come specchi del tempo che è passato e che verrà.
- L'artista la sa più lunga: la sua arte non riflette la realtà. La fonda. E per portare a termine questa impresa, generosità, preoccupazione, interessamento nei confronti degli altri non hanno alcuna importanza, se tutto ciò spezza o indebolisce l'opera. La meschinità, il disprezzo, l'egoismo più lampanti sono invece virtù dell'artista, se grazie a queste svolge il suo lavoro.
- La politica è l'arte di mandare giù rospi senza fare smorfie.
- Non è il passato a morire con noi. È il futuro.
"Gli anni con Laura Díaz" (1999), di Carlos Fuentes, trad. Ilide Carmignani
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