Philipp Meyer - Ruggine americana / American Rust (2009)
Per un po’, ad incuriosire c’è la narrazione strana di Meyer, con prima seconda e terza persona usate una sull'altra per esprimere l’alternanza, specie se concitata, di azioni e pensieri. (Esempio: “Non voleva muoversi. Sono ben nascosto, posso restare qui finché non se ne vanno. No, pensò, alzati. Entra nel bosco e allontanati da qui. Alzati. Va bene. Ho capito. Si alzò.” ) E, quanto alla forma, si può dire anche dei capitoli, brevi, in ognuno dei quali l’occhio è puntato su uno dei protagonisti…
Ma sono curiosità che si affievoliscono presto, e resta la sostanza, una storia di degrado con molto di “già letto” e “già visto” che, se pure qualche interesse iniziale lo suscita - anche di tipo sociologico, relativamente alla crisi economico-produttiva nel territorio americano d'ambientazione, con fabbriche d'acciaio dismesse e molta ruggine residua, reale e metaforica -, poi si trascina in calando, rinvigorita qua e là nelle intenzioni dalla violenza minore dei cazzotti e delle coltellate facili e da quella maggiore dei morti ammazzati alla grande.
Ma sono curiosità che si affievoliscono presto, e resta la sostanza, una storia di degrado con molto di “già letto” e “già visto” che, se pure qualche interesse iniziale lo suscita - anche di tipo sociologico, relativamente alla crisi economico-produttiva nel territorio americano d'ambientazione, con fabbriche d'acciaio dismesse e molta ruggine residua, reale e metaforica -, poi si trascina in calando, rinvigorita qua e là nelle intenzioni dalla violenza minore dei cazzotti e delle coltellate facili e da quella maggiore dei morti ammazzati alla grande.
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