Philip Roth - Nemesis (2010) / Nemesi
C’è un colpevole quando muore un bambino? O quando, per un’epidemia di poliomielite, ne muoiono tanti, e tra quelli che sopravvivono molti ne hanno il fisico devastato?
No, non c’è un colpevole per Arnie Mesnikoff, il narratore dalla 'mentalità atea' di questa storia: “A volte si è fortunati e a volte non lo si è. Ogni biografia è guidata dal caso e, a partire dal concepimento, il caso - la tirannia della contingenza - è tutto.” Per Bucky Cantor, giovane ebreo, con relativa formazione e poi crisi religiosa, il colpevole c’è, o anche due, a ben vedere: uno assoluto, Dio l’onnipotente, il grande macchinista, il responsabile di tutto, anche del male, sia esso prodotto o lasciato accadere; e poi uno aggiunto: lui stesso, nella sua veste di “untore”, diffusore, pur inconsapevole, del tremendo contagio. Da qui l’odio per quel Dio malvagio e l’autopunizione con l’infelicità a vita. Una severità implacabile, quella di Bucky, specie verso se stesso. Arnie Mesnikoff, l’amico ateo, commenta così - probabilmente scuotendo il capo: “Non si tratta d’altro che di stupida superbia, non la superbia della volontà o del desiderio ma la superbia di un’infantile, irreale interpretazione religiosa”.
C’è ben altro in questo romanzo di Roth, molta umana compassione, ad esempio; ma è l’effetto osceno di certa formazione religiosa e di un’esagerata durezza verso di sé che più colpisce: la mortificazione - non solo della carne - in vita.
(Agli amici... lo consiglio.)
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