Giorgio Fontana - Morte di un uomo felice (2014)
Intanto, la scrittura: è didascalica, piatta - o movimentata da dettagli insignificanti -, dunque poco gradevole, per me. Poi i contenuti: nel 1981 Giacomo Colnaghi è un magistrato del Tribunale di Milano che si occupa di terrorismo; essendo credente (della sottospecie “cattolico indipendente”), ha due grossi problemi: il primo sta nella difficoltà sovrumana di conciliare la bontà e la giustizia divina, e qui una teologa lo conforta, gli spiega che per il Dio della Bibbia (quello che, a quanto si legge, punisce a tutto spiano, anche orrendamente) “la giustizia è misericordia”; il secondo, più pressante per via del suo lavoro, sta nel conciliare la bontà e la giustizia degli uomini: e qui è pure più dura, perché lui - informa Fontana - “se ne avesse avuto la possibilità avrebbe salvato tutti, dal primo all’ultimo” - ma un magistrato non può, accidenti, sicché è dibattuto… E però, nonostante i problemi (qualcuno, minore, anche in famiglia), Giacomo Colnaghi è comunque felice: per il sostegno della fede, sembra di capire, e perché appagato dalla possibilità di “contribuire anche minimamente a creare un ordine giusto”. Quando poi muore, ammazzato dai terroristi, ha il tempo di rivolgere, serenamente, un pensiero a tutti i suoi cari, l’ultimo al padre (intercalata, nel romanzo c’è anche la sua storia, di partigiano ammazzato dai fascisti): “Ciao, papà, non vedo l’ora di incontrarti, so che non avrei dovuto morire in questo modo atroce e lasciare la mamma da sola, ma è andata così. Ho fatto bene? Sei fiero di me? Io di te lo sono sempre stato…” Va be’, si è capito: contrariamente ai giudici del Campiello, non ho proprio gradito.
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