martedì 18 novembre 2014

Roth (2014) su Portnoy (1969)

Rileggendo il Lamento di Portnoy a quarantacinque anni di distanza sono rimasto scioccato e compiaciuto: scioccato di essere stato così sconsiderato e compiaciuto di essere stato così sconsiderato. Di certo mentre scrivevo il libro non mi rendevo conto che di lì in avanti non mi sarei più liberato di questo paziente psicanalitico che chiamavo Alexander Portnoy, che stavo per barattare la mia identità con la sua e che tante persone avrebbero identificato la sua personalità e tutto il suo armamentario con i miei, e i miei rapporti con persone conosciute e sconosciute sarebbero cambiati di conseguenza.
Il lamento di Portnoy è stato il quarto dei trentuno libri che ho scritto. Quando lo scrissi, l’unica libertà che stavo cercando era liberarmi dallo scrittore che avevo cominciato a essere nei miei primi tre libri. Non ricercavo una catarsi come nevrotico o come figlio, come qualcuno ha ipotizzato, semmai di emanciparmi dagli approcci tradizionali alla narrazione. Mentre il protagonista si sforza di sfuggire alla propria coscienza morale, io cercavo di liberarmi da una coscienza letteraria che era stata costruita dalle mie letture, dalla mia scolarizzazione e dalla mia pignoleria, da una percezione convenzionale del galateo della prosa. Insofferente alle virtù della progressione logica, volevo rinnegare lo sviluppo coerente e ordinato di un mondo immaginato e avanzare alla rinfusa e freneticamente, come procede idealmente il classico paziente dell’analista fra gli spasimi della libera associazione.
Ho ritratto un uomo che è il ricettacolo di ogni pensiero inaccettabile, un uomo di trentatré anni posseduto da sensazioni pericolose, opinioni sgradevoli, rancori feroci e sentimenti sinistri, e naturalmente perseguitato dalla presenza implacabile della lussuria. Insomma, ho scritto di quella parte di asocializzato che è dentro quasi tutti noi, e che ognuno affronta con vari gradi di successo. Qui captiamo Portnoy intento allo sforzo estemporaneo del paziente psicanalitico di gestire (o malgestire) il proprio disordine.
Portnoy abbonda di ira quanto di lussuria. Chi non è così? Qual è la parola chiave dell’incipit dell’Iliade? L’ira. Così comincia l’intera letteratura europea: cantando l’ira virile di Achille. Uno scrive un libro repellente (e il Lamento di Portnoy da molti è stato visto unicamente in questa veste) non per essere repellente, ma per rappresentare il repellente, per diffondere il repellente, per svelarlo, per mostrare che aspetto ha e cos’è. Cechov diceva saggiamente che il compito dello scrittore non è risolvere i problemi, ma presentare il problema in modo appropriato.
Dal momento che la regola di base freudiana è che nulla, in una storia personale, è troppo insignificante o volgare per parlarne, e nulla, allo stesso modo, è troppo mostruoso o troppo grande per parlarne, la sessione psicanalitica offriva il vascello appropriato per contenere tutto. L’ufficio dell’analista, l’ambientazione del libro, è quel posto dove non si deve censurare nulla. La regola è che non c’è nessuna regola, e questa è stata la regola che ho seguito per tratteggiare la derisione satirica di un figlio della propria famiglia ebrea, dove l’oggetto più comico della derisione si rivela essere proprio il figlio che la deride. L’aggressività sgraziata della satira, combinata all’iperrealismo della satira — il ritratto che rasenta la caricatura, l’appetito comico per l’inconsueto — ovviamente non sono piaciute a tutti. Io, d’altra parte, sulle ali della gaiezza sono volato lontano dai miei primi tre, rispettabili libri.
La grottesca concezione che ha Portnoy della propria vita era molto influenzata da regolamenti, inibizioni e tabù che non hanno più alcuna presa sulla gioventù eroticamente affrancata dei nostri giorni, nemmeno nel più sperduto paesucolo degli Stati Uniti. Ma in un’adolescenza americana degli anni Quaranta — un lungo mezzo secolo prima che la pornografia in Rete fosse anche soltanto un sogno — queste costrizioni predominavano, nell’angusto contesto in cui Portnoy, tra mille inquietudini, stava diventando grande. Grazie alla drastica alterazione della prospettiva morale negli ultimi quarantacinque anni, le notizie sessuali così apparentemente calamitose quando Portnoy strombazzò per la prima volta all’analista la sua storia fallica, nel 1969, ormai sono state disintossicate. Sotto questo aspetto, il mio libro sregolato ormai è datato quanto La lettera scarlatta o il suo compagno di scuderia di fine anni Sessanta, Coppie di John Updike, un altro romanzo genitalico che all’epoca scioccò ancora a sufficienza da mettere in discussione certezze sociali già vacillanti sui confini dell’eros e le prerogative della lussuria.
Alexander Portnoy, riposa in pace.
- PHILIP ROTH

(Da: la Repubblica 17.11.2014, che riprendeva dal NYT)

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